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08 luglio 2005

De pseudonimini, anonimi et copy left!


pessoa, originally uploaded by lzp.

Lunga, piuttosto lunga, ispiratissima, illuminante, risolutiva forse (speriamo di no) analisi di una questione affrontata a latere di questo nostro Blog, ossia la questione della liceità o meno dell'anonimato (o dello pseudonimo), oltre che ad una esaustiva spiegazione del concetto di "copyleft", cui NOI, ci rifacciamo.

Dedicato con particolare affetto a tutti quelli che hanno considerato, e considerano l'uso dell'anonimato o di uno pseudonimo, un atto di codardia, i quali siamo certi giudicheranno l'analisi qui di seguito fornita, nella migliore delle ipotesi, quale una montagna himalayana di stronzate! 8-D

E va benissimo così!!

Dissentire, sempre civilmente, é lecito, qui. 8-D

NB: per rendere agevole la fruizione del testo, si é preferito spezzarlo in più parti, qui la prima parte, nei prossimi giorni la successiva.

txt by Felice Campora
courtesy of www.miserabili.com

-Cos'hanno in comune Le Corbusier, Donnu Pantu e Bob Dylan? Poco o niente a prima vista; il primo è notoriamente uno dei padri dell'architettura moderna, il secondo è il licenzioso poeta di Aprigliano del 1600, il terzo è il grande folksinger americano, un mito vivente anche del rock e del blues. Sembra che non ci sia nessun punto di contatto tra di loro, ma a ben sapere tutt'e tre questi nomi non sono altro che pseudonimi di tre persone che nella loro vita si chiamavano (e si chiamano ancora nel caso di Dylan) rispettivamente Charles Jeanneret, Domenico Piro e Robert Zimmerman.
Bisogna proprio chiederselo come mai una persona lascia il proprio nome e ne assume un altro. Abbandoniamo subito la psicologia, le turbe psichiche, il gioco del nascondino: la gran parte di coloro che si presentano ad un pubblico con un nome che non è quello anagrafico non ha problemi di questo tipo - anzi. Tra di loro ci sono persone che nel corso della loro vita hanno mostrato coraggio, chiarezza di vedute e sensibilità certamente fuori dal comune. Via dunque le analisi psicologiche e affrontiamo il caso da un punto di vista artistico. Sì, perché quello che certamente accomuna i tre personaggi sopra citati è il fatto di essere in qualche modo impegnati in lavori che hanno a che fare con la creatività e l'arte. Tanto è stretto il nesso tra pseudonimia e creatività che non è azzardato partire proprio da qui per cercare di capire cosa gira intorno al fenomeno. Non è comunque un affare recente; William Shakespeare sulla relazione tra nome e persona ha scritto nel 1594 una delle più belle pagine di ogni tempo. Nella seconda scena del secondo atto di Romeo and Juliet, Giulietta Capuleti invita Romeo Montecchi ad abbandonare il proprio nome e a prenderne un altro, e questo perché Romeo ha il cognome della famiglia in aspra e continua lite con quella dell'amata. "Cosa c'è in un nome?" gli dice Juliet, "Non è la mano, non è il piede, non è il braccio, non è il volto né qualsiasi altra parte del corpo di un uomo." Cerchiamo di vederci meglio.
Dobbiamo subito mettere da parte quei casi di pseudonimi adottati da persone che hanno inteso rendere più semplice la pronuncia del loro nome e cognome anagrafici, come per esempio ha fatto Sofia Scicolone quando ha cominciato a fare l'attrice e ha scelto di chiamarsi Sofia Loren. Mettiamo anche da parte quelle scelte dettate da ragioni di marketing e di stile, come Carlo Pedersoli, meglio conosciuto come Bud Spencer, o Teodor Jòzef Konrad Korzeniowski il quale, quando ha cominciato a scrivere racconti in inglese, ha firmato i suoi capolavori narrativi con il nome di Joseph Conrad - è lui l'autore di Cuore di Tenebra (1899), da cui è stato tratto il film Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979). Mettiamo anche da parte quei casi di pseudonimi che in realtà non sono altro che diminuitivi del nome, come Totò (da Antonio, Antonio De Curtis), o Woody Allen (da Heywood Allen Stewart). Non è che questi siano casi di scelte compiute con faciloneria; farsi chiamare con un nome non proprio non è mai un affare di poco conto. Mi pare però che siano più evidenti in questi esempi ragioni pratiche o casuali, come il caso dei diminuitivi.
Ci sono poi i casi che lasciano spazio a riflessioni più profonde, che riguardano generalmente i modi in cui l'autore intende collocare la sua opera nel mondo. Questa collocazione in effetti non è che l'ultima di una serie di scelte che l'autore compie a partire dal momento in cui concepisce l'opera fino a quando la licenzia. Vorrei puntare l'attenzione su uno di questi momenti: quello in cui l'opera nasce o, per meglio dire, viene in possesso dell'artista. Il poeta irlandese William Butler Yeats a questo proposito affermava che vi è un preciso luogo dove le opere d'arte risiedono, luogo che chiamava spiritus mundi; diceva che certa gente quando crea non fa altro che raggiungere questo luogo, prendere la roba artistica e tornare indietro. (Molte altre persone nel corso dei secoli hanno parlato di questi luoghi, ma Yeats mi è rimasto più in mente perché a quel luogo ha dato un vero e proprio nome.) L'atto creativo, secondo l'Irlandese, sembra quindi contenere in sé un lungo tempo di magico attraversamento, un viaggio più o meno intimo per luoghi lontani e che ci fa sentire diversi. Parliamo allora adesso proprio di quei casi di persone che nell'adozione di un diverso nome mostrano segnali di una concezione dell'arte come un luogo altrove.
Così, non è certo un cattivo nome Ettore Schmitz, ma lui ha firmato La Coscienza di Zeno (1923) con il nome di Italo Svevo. Ogni pseudonimo a questo punto meriterebbe una trattazione a sé; per esempio il nome appena scritto non è altro che un composto di due nazionalità, per giunta non più attuali, ma appartenenti alla storia antica e medioevale: Italo significa abitante dell'antica Italìa, l'Italia prima dei Romani; Svevo è l'abitante di una regione storica della Germania sud-occidentale, il cui esercito ha invaso l'Italia nel corso del 1200. Due antiche nazionalità, due nomi che comunque suonano bene insieme. Sembrano derivare proprio da una qualche ponderata scelta, ma non è possibile parlarne oltre rimanendo costantemente nell'ambito delle certezze. Allo stesso modo ha giocato poi Carlo Alberto Salustri quando ha deciso di firmarsi Trilussa: il nome del poeta romano non è altro che un anagramma del cognome, ed è anch'esso determinato da una particolare esigenza di estraneità, non certo dal caso. Si dice poi che Robert Zimmerman abbia scelto un cognome come Dylan per rendere in qualche modo omaggio a un grande poeta gallese, Dylan Thomas; ma non credo che se qualcuno chiedesse a Bob di confermare questa motivazione lui risponderebbe qualcosa di definitivo; mi sembra comunque un inconfondibile procedimento evocativo. Anche il caso di Agatha Christie sembra appartenere a questo ambito; anagraficamente era Agatha Mary Clarissa Miller. Agatha Miller poteva anche andare bene, ma scelse uno pseudocognome totalmente nuovo. Le doveva piacere vestirsi d'altri panni al momento di scrivere i suoi appassionanti e fortunati thriller - una volta si firmò anche Mary Westmacott.
Il caso più straordinario è certamente quello del portoghese Fernando Pessoa, nato nel 1888 e vissuto fino al 1935. Ha scritto una gran moltitudine di opere letterarie firmandole con diversi nomi, creando persone fittizie con vere e proprie biografie e stili di scrittura. Il bello è che solo dopo la sua morte è cominciato a venire alla luce qualcosa di quel mondo di persone che vivevano dentro di lui. In vita aveva pubblicato col suo nome solo una raccolta di poesie e forse qualche altra cosa. Per molti anni i critici si erano fatti l'idea di una letteratura portoghese ricca e variegata, con personaggi quali Alvaro De Campos, Bernardo Soares, Ricardo Reis insieme al padre letterario di tutti: Alberto Caeiro; ebbene, erano tutti nomi creati dalla sua felicissima fantasia - straordinario. Molti scrittori in effetti credono davvero di avere moltitudini dentro di sé, anche in aspra contraddizione a volte. E' una condizione comune; mi viene in mente il poeta americano della beat generation Allen Gingsberg, che spesso riceveva per queste sue "moltiplicazioni" critiche del tipo: "Ma tu ti contraddici!" Non so se Gingsberg avesse mai letto Pessoa, ma in una poesia [citando Walt Whitman] scrisse per risposta a quei mediocri: "Mi contraddico? Bene, allora vuol dire che contengo moltitudini."

-- to be continued s.a.p--

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